Marcell Jacobs: “Ai Mondiali di atletica voglio correre leggero dopo un anno di sofferenze”
BUDAPEST — Al quartier generale del suo sponsor (Puma) lo presentano come The Mistery Man. Sul murale celebrativo tra i campioni olimpici il suo volto non compare (c’è invece Tamberi). Marcell Jacobs, 29 anni tra un mese, campione olimpico ed europeo dei 100 metri non ha (finora) avuto fortuna ai Mondiali. L’anno scorso a Eugene si presentò con il 40° tempo della stagione (10”04) e dopo aver corso la batteria (stesso tempo) scomparve dai radar della semifinale e della staffetta azzurra. Per infortunio. In questa stagione la situazione è peggiorata: Marcell ha corso all’aperto una sola volta, 10”21 (il 9 giugno a Parigi) e poi il black-out. Sempre per malanni fisici. Il suo tempo è il 200° al mondo e il 51° degli iscritti. Sabato sera correrà la batteria (semifinale e finale sono domenica). Sulla carta parte da dietro. Il suo è un rientro al buio.
Quanti autografi ha firmato a Budapest?
«Per la verità pochi e solo a tifosi italiani. È la prima volta che gareggio a Budapest, lo stadio è bello e nuovo. Arrivare fino a qui è stato complicato, ho dovuto restare concentrato, ma non ho avuto dubbi e preoccupazioni, perché questa del Mondiale all’aperto è l’unica medaglia che ancora manca alla mia collezione. Il mio allenamento sta andando molto bene, ho dato e darò tutto me stesso. Voglio risentire l’adrenalina, respirare per spingermi oltre i miei limiti».
È già un successo partecipare.
«Non mi interessa, non vengo per partecipare. Certo non sarà facile, anzi diciamo pure che sarà complicato, ma questo Mondiale lo voglio portare a casa. Per tutto maggio non ho potuto allenarmi, è stata una bella botta, fisica, ma soprattutto mentale. Molto frustrante. A Parigi ero incerto, avevo dolori e tensioni, non ci ho dato tanto peso e ho peggiorato la situazione. Questo mi ha fatto capire che dovevo fermarmi. Non riuscivamo ad individuare il problema, c’è voluto tempo per capire che era una lesione al nervo sciatico che mi bloccava anche la schiena. Non potevo né correre né stare seduto sul divano. La fortuna non è mai stata dalla mia parte, ho sempre dovuto costruirmi tutto».
La fama di campione olimpico però continua a spaventare gli altri.
«Ci sono ancora gli occhi puntati su di me, il titolo mi dà un’energia in più che porto in pista, anche se avrei preferito arrivare qui con risultati buoni. Gli infortuni fanno parte del gioco, ma sono stati davvero troppi. A volte mi chiedo come sarebbe stata la mia carriera se non avessi dovuto fermarmi così spesso».
Ha un tempo di riferimento?
«Non voglio darmi un voto da 1 a 10, dico solo che il lavoro va bene. Non posso cambiare le cose, ma la forma è buona, i tempi anche, sono supermotivato».
Risolto il problema della scarpa nuova?
«Il mio sponsor Puma è stato molto collaborativo. Nel loro quartier generale in Germania hanno studiato il mio piede, perché la mia corsa è diversa da quella degli altri, e apportato le modifiche. Ognuno ha il suo stile».
Il mondo corre: quest’anno sono scesi in 21 sotto i 9”95.
«Se è una domanda per sapere chi vedo favorito nei 100 metri non escluderei l’inglese Zharnel Hughes che a New York ha corso perfettamente in 9”83 ma che forse soffre un po’ i grandi appuntamenti e terrei sempre in considerazione l’americano Fred Kerley, argento dietro di me a Tokyo e con cui in questa stagione è mancata la sfida. Quanto a Noah Lyes lo vedo meglio sui 200. Sul fenomenale diciottenne Asinga del Suriname fermato in via precauzionale per doping, non dico nulla, aspettiamo conferme. Non è mia abitudine puntare il dito contro nessuno, ma ho sempre creduto che uno debba farcela con le sue forze».
È un mondo capovolto: nel disco 3 dei migliori 9 lanciatori sono giamaicani.
«Figurarsi se non capisco. Se c’è uno che ha portato i 100 metri fuori dal loro habitat naturale sono io, ho sfilato la medaglia ad americani, giamaicani, inglesi in una specialità che l’Italia non aveva mai vinto».
Sta girando una serie per Netflix?
«Sì. La trovo un’ottima idea far vedere cosa fanno gli atleti al di là dei loro 9 secondi e qualcosa. I cento sono la gara più breve del mondo, noi da dentro la vediamo in un certo modo, ma c’è dell’altro. Non sarebbe male riuscire a cambiare estetica, far interessare più persone, creare dei fan».
E quando sentirà di nuovo lo sparo?
«Cercherò di non pensare a niente, di svuotare la testa, di non tornare con i pensieri a quello che è stato e a quello che volevo fare. Bisogna essere fluidi, fidarsi dell’allenamento svolto e affidarsi al corpo, lasciarsi andare».
BUDAPEST — Al quartier generale del suo sponsor (Puma) lo presentano come The Mistery Man. Sul murale celebrativo tra i campioni olimpici il suo volto non compare (c’è invece Tamberi). Marcell Jacobs, 29 anni tra un mese, campione olimpico ed europeo dei 100 metri non ha (finora) avuto fortuna ai Mondiali. L’anno scorso a Eugene si presentò con il 40° tempo della stagione (10”04) e dopo aver corso la batteria (stesso tempo) scomparve dai radar della semifinale e della staffetta azzurra. Per infortunio. In questa stagione la situazione è peggiorata: Marcell ha corso all’aperto una sola volta, 10”21 (il 9 giugno a Parigi) e poi il black-out. Sempre per malanni fisici. Il suo tempo è il 200° al mondo e il 51° degli iscritti. Sabato sera correrà la batteria (semifinale e finale sono domenica). Sulla carta parte da dietro. Il suo è un rientro al buio.
Quanti autografi ha firmato a Budapest?
«Per la verità pochi e solo a tifosi italiani. È la prima volta che gareggio a Budapest, lo stadio è bello e nuovo. Arrivare fino a qui è stato complicato, ho dovuto restare concentrato, ma non ho avuto dubbi e preoccupazioni, perché questa del Mondiale all’aperto è l’unica medaglia che ancora manca alla mia collezione. Il mio allenamento sta andando molto bene, ho dato e darò tutto me stesso. Voglio risentire l’adrenalina, respirare per spingermi oltre i miei limiti».
È già un successo partecipare.
«Non mi interessa, non vengo per partecipare. Certo non sarà facile, anzi diciamo pure che sarà complicato, ma questo Mondiale lo voglio portare a casa. Per tutto maggio non ho potuto allenarmi, è stata una bella botta, fisica, ma soprattutto mentale. Molto frustrante. A Parigi ero incerto, avevo dolori e tensioni, non ci ho dato tanto peso e ho peggiorato la situazione. Questo mi ha fatto capire che dovevo fermarmi. Non riuscivamo ad individuare il problema, c’è voluto tempo per capire che era una lesione al nervo sciatico che mi bloccava anche la schiena. Non potevo né correre né stare seduto sul divano. La fortuna non è mai stata dalla mia parte, ho sempre dovuto costruirmi tutto».
La fama di campione olimpico però continua a spaventare gli altri.
«Ci sono ancora gli occhi puntati su di me, il titolo mi dà un’energia in più che porto in pista, anche se avrei preferito arrivare qui con risultati buoni. Gli infortuni fanno parte del gioco, ma sono stati davvero troppi. A volte mi chiedo come sarebbe stata la mia carriera se non avessi dovuto fermarmi così spesso».
Ha un tempo di riferimento?
«Non voglio darmi un voto da 1 a 10, dico solo che il lavoro va bene. Non posso cambiare le cose, ma la forma è buona, i tempi anche, sono supermotivato».
Risolto il problema della scarpa nuova?
«Il mio sponsor Puma è stato molto collaborativo. Nel loro quartier generale in Germania hanno studiato il mio piede, perché la mia corsa è diversa da quella degli altri, e apportato le modifiche. Ognuno ha il suo stile».
Il mondo corre: quest’anno sono scesi in 21 sotto i 9”95.
«Se è una domanda per sapere chi vedo favorito nei 100 metri non escluderei l’inglese Zharnel Hughes che a New York ha corso perfettamente in 9”83 ma che forse soffre un po’ i grandi appuntamenti e terrei sempre in considerazione l’americano Fred Kerley, argento dietro di me a Tokyo e con cui in questa stagione è mancata la sfida. Quanto a Noah Lyes lo vedo meglio sui 200. Sul fenomenale diciottenne Asinga del Suriname fermato in via precauzionale per doping, non dico nulla, aspettiamo conferme. Non è mia abitudine puntare il dito contro nessuno, ma ho sempre creduto che uno debba farcela con le sue forze».
È un mondo capovolto: nel disco 3 dei migliori 9 lanciatori sono giamaicani.
«Figurarsi se non capisco. Se c’è uno che ha portato i 100 metri fuori dal loro habitat naturale sono io, ho sfilato la medaglia ad americani, giamaicani, inglesi in una specialità che l’Italia non aveva mai vinto».
Sta girando una serie per Netflix?
«Sì. La trovo un’ottima idea far vedere cosa fanno gli atleti al di là dei loro 9 secondi e qualcosa. I cento sono la gara più breve del mondo, noi da dentro la vediamo in un certo modo, ma c’è dell’altro. Non sarebbe male riuscire a cambiare estetica, far interessare più persone, creare dei fan».
E quando sentirà di nuovo lo sparo?
«Cercherò di non pensare a niente, di svuotare la testa, di non tornare con i pensieri a quello che è stato e a quello che volevo fare. Bisogna essere fluidi, fidarsi dell’allenamento svolto e affidarsi al corpo, lasciarsi andare».